paolo nori 2 - l'aquilone

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Conversazione con Paolo Nori

In un pomeriggio bolognese, incontriamo Paolo Nori, alla vigilia della pubblicazione, sempre per Einaudi, del suo terzo romanzo: "Spinoza". Entrambi in perfetto anticipo sull'ora fissata, ci spostiamo in un tranquillo barettino per scambiare due chiacchiere.


Cominciamo parlando del tuo primo romanzo che non è "Bassotuba non c’è", come molti pensavano…

Il primo libro si chiama "Le cose non sono le cose" ed è uscito per Fernandel. Non si è visto tanto, anche se la prima edizione è andata esaurita. Quando Einaudi ha ristampato "Bassotuba non c’è" Fernandel ha ristampato "Le cose non sono le cose", ma la casa editrice ha dei problemi di distribuzione, si appoggia a dei distributori regionali che pare non funzionino molto bene. Però il libro c’è, su Zivago per esempio si trova.

Il protagonista dei tuoi romanzi è sempre Learco Ferrari. Potremmo definirlo il tuo alter ego?

Alter ego non lo so… Comunque Learco Ferrari è l’io narrante di tutte le cose lunghe che ho scritto, cose che, anche se si possono leggere indipendentemente l’una dall’altra, sono collegate. "Bassotuba non c’è" comincia lo stesso giorno in cui finisce "Le cose non sono le cose" e finisce lo stesso giorno in cui comincia "Spinoza", il terzo romanzo che uscirà i primi di ottobre.

Non lo chiamiamo il tuo alter ego, ma c’è un certo autobiografismo in quello che scrivi?

Questa è una domanda che quando vado a leggere mi fanno spesso, io di solito per rispondere leggo una cosa che ho scritto, la cosa che segue:
"Quasi tutta la gente che mi parla delle cose che scrivo sono quasi tutti convinti che sono autobiografiche, le cose che scrivo. C’è una mia amica, si chiama Cristina, quando le racconto delle cose della mia vita lei mi dice Lo so. Oppure mi dice No, non è vero. Non ti ricordi cosa dicevi in Spinoza? mi dice. Io di solito non mi ricordo. Io mi ricordo quand’ero in Algeria, mi ricordo.
Quand’ero in Algeria eravamo lì, quattrocento italiani sulle montagne a fare una fabbrica di detersivi, sempre da soli nel nostro villaggio di case prefabbricate che non potevi neanche uscire con un’algerina, non potevi, che lì sulle montagne gli europei non li sopportavano, se te uscivi con le algerine si arrabbiavano, gli algerini delle montagne. Ti fermava la polizia, ti chiedeva Dove vai, con questa algerina? A fare un giro, gli dicevi. Vieni vieni, ti diceva la polizia, che te li facciamo fare noi, i giri.
Allora essere lì tutte le sere parlare sempre con la stessa gente dopo uno non sapeva neanche cosa inventare, tutte le sere una dopo l’altra a parlare, che brutto lavoro. Allora mi ricordo una sera c’era uno che era appena tornato dall’Italia, Ragazzi, ci ha detto, in Italia hanno inventato una macchina fenomenale. Una macchina straordinaria che la scienza in questi mesi che voi siete stati qua sulle montagne ha fatto dei passi da gigante che voi non avreste mai immaginato, che si sarebbe arrivati a inventare una macchina così. Cosa ci siamo persi, gli dicevamo, in questi mesi che siamo stati qua sulle montagne a fare una fabbrica di detersivi?
Allora, ci diceva questo che era appena arrivato dall’Italia, in Italia l’università di Pisa hanno inventato una macchina che sembra, una macchina miracolosa, invece l’hanno proprio inventata, che quando hanno fatto la prova anche loro non eran sicuri se funzionava o non funzionava, quando hanno visto che funzionava eran contenti come le pasque, quando si sono resi conto che funzionava davvero.
Sì ma, gli dicevamo, lascia perdere, se eran contenti o non eran contenti, dicci che macchina era.
Quella macchina lì, ci diceva questo che era appena arrivato dall’Italia, è una macchina di metallo che c’è un grande imbuto che porta a una scatola, che dentro la scatola ci sono degli ingranaggi, dell’energia elettrica, c’è tutto un giro di neutroni e di elettroni, dentro la scatola, di piastrine, di trasfusioni del sangue, di encefalogrammi, c’è tutta una cosa complicatissima che sembra che ci son delle cose in più, guardarla da fuori, invece serve tutto appositamente per gli scopi strabilianti di questa macchina meravigliosa. Adesso voi li vorrete sapere, gli scopi strabilianti di questa macchina meravigliosa, ci diceva questo che era appena arrivato dall’Italia.
Fa' te, gli dicevamo noi.
Questa macchina, ci diceva lui, te nell’imbuto ci infili i salami, i prosciutti, le coppe, i pettini, le spazzole, dall’altra parte dopo un quarto d’ora viene fuori il maiale, ci diceva questo deficiente.
Allora i romanzi, ci vorrebbe una macchina miracolosa così, per risalire dal romanzo alla vita di quello che scrive il romanzo, solo la gente è difficile che lo capisce, la gente gli basta che vede una cosa stampata, ci crede subito, quello che vede".

Accennavi prima al tuo nuovo lavoro…

Spinoza è un’altra storia di Learco Ferrari. In questi libri si parla poi sempre delle stesse cose perché i miei argomenti sono quei quattro lì. La voce è sempre quella, però il tono, il mood, come si dice, è diverso di volta in volta. In "Le cose non sono le cose" prevaleva la rabbia, Learco era molto incazzato perché non gli pubblicavano i libri. In Bassotuba non c’è prevalgono malinconia e disperazione, ma strane, allegre. In Spinoza quello che guida è lo smarrimento. Learco è disorientato perché alla fine han deciso di pubblicargli un libro. E a lui questa cosa da un po’ fastidio, perché si sentiva perfettamente a proprio agio nei panni dell’autore rifiutato e quando questa porta si apre lui perde tutti i punti di riferimento e non sa come comportarsi. Questa è la storia principale.

E Paolo invece come l’ha vissuta?

Io sono stato molto contento, il primo contratto con Einaudi l’ho firmato in ospedale, in un periodo complicatissimo sotto l’aspetto personale. La scrittura, invece, andava benissimo.

Tu dai molta importanza ai tuoi testi valorizzandoli con dei reading.

Per me è la parte più bella. C’è la parte della scrittura che è molto gratificante, però il leggere ad alta voce ti dà la percezione di quello che hai fatto, a me serve molto anche per correggere, io ho degli amici ai quali leggo le cose anche subito dopo averle scritte, lo stesso giorno. Sono molto importanti, le indicazioni che mi danno. Pubblicare un libro secondo me non è l’ultimo stadio del fatto di scrivere. L’ultimo stadio è proprio andare in giro a fare queste letture. Non presentazioni, letture.

Sei attento anche al rapporto con gli altri scrittori, faccio un parallelo con Learco che si impegnava a chiamare i colleghi… ad organizzare letture…

Adesso lo faccio meno. All’epoca esisteva un progetto che si chiamava Animali parlanti. C’era un gruppo di scrittori che cercava di scrivere dei brevi monologhi dove gli animali parlavano in prima persona, però non si trattava dei classici animali letterari, usati come pretesto per fare la parodia degli uomini, i nostri erano animali un po’ stupidi. Noi cercavamo di riprodurre i ragionamenti ad alta voce di cervelli un po’ difettosi, e i nostri monologhi erano tutti così, difettosi, pieni di fissazioni, di fobie, di risentimenti incomprensibile verso soggetti incolpevoli, di difetti di pronuncia, di idee sballate. Oggi quella storia si è conclusa. Però in Emilia, rispetto al resto dell’Italia c’è un bel giro di queste letture. All’estero sento che se ne organizzano molte e fan bene, secondo me, perché nella mia comprensione della cosa la letteratura ha molto a che fare con la voce e con l’udito.

Ti senti parte di una nuova ondata di autori che si sono allontanati dal cliché del pulp?

Mah. Io credo che il pulp in Italia sia più che altro frutto di un’operazione di marketing che ha funzionato molto bene, Gioventù cannibale. Non credo che stilisticamente o contenutisticamente si possano avvicinare autori come Luttazzi con Aldo Nove o Pinketts. Quell’antologia lì, Gioventù cannibale, ha funzionato molto bene, perché se ne è parlato per tre anni, ma in realtà i cannibali non esistevano, per tre anni si è parlato di una cosa che non esisteva. Una riuscita operazione di marketing. In Emilia c’è una tradizione nella quale mi sembra… sai è difficile parlare di come stanno le cose che scrivo io in rapporto alle cose scritte da altri. Io a un certo punto ho avuto l’impressione di muovermi in un solco tracciato, se io vado a leggere Zavattini, Guareschi, Delfini, Malerba, Celati, Cavazzoni, Benati, mi sembrano tutti autori che hanno questa propensione per una narrativa orale, autori per niente accademici, ai quali non interessa far capire che loro sono bravi a scrivere. Ai quali interessa, piuttosto, raccontare delle storie che uno le sta a sentire volentieri. Io scrivo in un modo diverso, ci sono delle cose che sono proprie della mia generazione, ci sono le mie manie, le mie fobie, però la traccia è questa, secondo me.

Com’è il tuo approccio alla scrittura? Ti vedevo prendere appunti, scrivi a mano?

No, scrivo al computer. Se mi viene in mente qualcosa in giro me lo segno poi a casa la sviluppo.

Ascolti musica quando scrivi?

No, ascolto la radio, ma la radio parlata, radio tre a volte. In genere non ascolto molta musica, suono. Suono la tromba in un gruppo scalcinato, facciamo un concerto all’anno.

Anche Learco suona la tromba?

Anche Learco

Il luogo geografico ti influenza?

Molto. Queste quattro città, Parma, Modena, Reggio Emilia e Bologna che sono, praticamente, una città unica. La lingua è sempre quella, e il fatto di sentirsi intorno questa lingua qua, penso sia una cosa che mi serve.

Scrivi anche cose brevi?

È difficile che scriva cose brevi, le scrivo se me lo chiedono. Poi magari, rielaborate, vanno a finire nei romanzi. A me interessa la forma romanzesca, sia come lettore che come autore. Quando mi sono messo a scrivere, l’idea era quella di fare un romanzo, centocinquanta pagine che stessero in piedi.

Io chiudo le interviste sempre chiedendo quali sono l’ultimo disco e l’ultimo libro che hai comprato e letto…

Ho comprato un compact di Bob Dylan, si chiama Highway 61 revisited, un vecchio disco… poi in realtà non si tratta dell’ultimo, ho comprato delle cose in Russia, quest’estate. L’ultimo libro è "Parerga e paralipomena" di Arthur Schopenhauer.


a cura di Andrea Alessandro Di Carlo.


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